Nel video Randal - uno dei protagonisti dell'amata serie “This is Us” in cui, dopo un primo percorso di terapia, si accinge ad incontrare altri professionisti.

Secondo voi, tra i tre, chi sceglierà? :-) Clicca sulla foto per vedere il video e scoprirlo

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Scegliere con chi lavorare su se stessi, scegliere con chi instaurare un rapporto così particolare come quello che si crea con uno psicoterapeuta non è affatto facile.

I motivi sono tanti ma, in primis, il fatto è che, prima si sceglie, e poi, si incontra, e solo durante l'incontro può esserci una valutazione rispetto all'essere nel posto giusto, con la persona “giusta”.

Ed è proprio prima di arrivare all'incontro che si devono dribblare una serie di questioni, in mezzo alle quali, ci sono anche le nostre naturali resistenze.

Ma andiamo per ordine.

Spesso le persone arrivano per vie diverse, in cui anche il caso fa la sua parte: il passaparola, la ricerca su internet, la lettura delle esperienze, la lettura di pubblicazioni (su social, blog, libri, …), la vicinanza geografica, il tipo di specializzazioni, l'approccio teorico, etc...

In particolare:

  • è utile e interessante avere testimonianze dirette di persone che hanno lavorato con quel terapeuta, tuttavia non sempre le persone sbandierano le loro esperienze o viceversa non desiderano condividere il fatto di cercare un terapeuta;

  • internet può fornire molte informazioni, un tempo inaccessibili così agilmente, fornite dal terapeuta stesso ma anche da altri pazienti per esempio sotto-forma di testimonianze o recensioni; leggere cosa e come scrive un terapeuta, magari vederlo in un video potrebbe dare una prima impressione, seppur inevitabilmente parziale e generica;

  • altro vantaggio offerto dalla tecnologia è quello di superare le barriere geografiche: con gli incontri on line è possibile, oltre risparmiare tempo, scegliere qualcuno adatto a noi che sarebbe troppo distante da raggiungere fisicamente;

  • in altri casi è apprezzato il fatto di uscire di casa ed avere un tempo di elaborazione, prima e dopo l'incontro, il tempo del tragitto per raggiungere lo studio;

  • un fattore da prendere in considerazione può essere anche il “tipo” di terapeuta in base alla sua formazione: gli approcci in psicoterapia sono molti e molto diversi, come anche gli strumenti, tuttavia mi sento di dover sottolineare che un elemento fondamentale è lo stile personale del terapeuta che da origine al fattore terapeutico più rilevante in assoluto che è la qualità della relazione che si andrà ad instaurare;

Dopo e durante aver passato al vaglio una serie di possibili professionisti ci sono freni e resistenze che possono inibire il primo contatto: di solito una telefonata ma, anche un messaggio scritto.

Le resistenze sono sono una fisiologica reazione al cambiamento, anche quando si desidera cambiare rispetto a qualcosa che ci fa soffrire, perché il nostro dolore lo conosciamo bene, mentre un'ipotetica alternativa può suscitare paure e fantasie temibili.

Fantasie che, in quanto tali, sono da rispettare ma non è auspicabile porle al timone della nostra vita. Per cui è importante fare un bel respiro e lasciare che siano curiosità e desiderio di benessere a spingerci a contattate chi potrà essere importante per intraprendere il meraviglioso viaggio verso la piena realizzazione della nostra vita.

Non ultimo, la scelta va ben ponderata ma, suggerirei, di muoversi con leggerezza e libertà.

Non sempre, il primo incontro potrebbe rivelarsi essere quello “giusto” ma sarà comunque un'esperienza importante per orientaci nella ricerca.

La bussola nella scelta è il nostro “sentire”: per poterla attivare è necessario incontrarsi.

 d.ssa Stefania Macchieraldo - 3407460184 - Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

 

La diffusione delle tecnologie digitali nella vita quotidiana sta interessando sempre di più anche l’infanzia, modificando l'ambiente di crescita dei bambini (Bianchi & Mazzuccelli, 2019) e le loro esperienze di vita quotidiana.

Oltre all’uso della televisione, con canali ideati apposta per i bambini, è in aumento anche l’uso di dispositivi elettronici touchscreen (Rocha & Nunes, 2020). L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, 2019) ha dato raccomandazioni per ridurre lo stile di vita sedentario che sempre più accomuna i bambini al giorno d’oggi, sottolineando di non esporre alla tecnologia bambini al di sotto dei 2 anni d’età, mentre per i bambini tra i 2 e i 5 anni di permettere solo un’ora al giorno di fronte agli schermi digitali. 

La crescente preoccupazione sull’uso della tecnologia nell’età evolutiva è accompagnata dall’evidenza che possa avere effetti nocivi sulla salute e lo sviluppo dei bambini, in quanto è associata a obesità, disturbi del sonno, difficoltà di concentrazione, oltre al fatto che toglie tempo ad altre attività come la lettura o il gioco creativo (Carter, Rees, Hale, Bhattacharjee, & Paradkar, 2016; Howe et al., 2017; Rocha & Nunes, 2020); a questo si aggiungono le preoccupazioni relative alle difficoltà che possono emergere a livello di socializzazione.

Spesso i dispositivi elettronici appaiono come un modo per i genitori per far fronte alla propria frustrazione in seguito al comportamento del figlio; essi infatti hanno un effetto calmante e facilitano la routine giornaliera e la relazione con i figli (Rocha & Nunes, 2020). Viene spesso anche discusso di quanto i bambini con un temperamento agitato e aggressivo passino più tempo utilizzando dispositivi elettronici come strategia messa in atto dai genitori per distrarli.

A questo proposito la  American Academy of Pediatrics rassicura sul fatto che, a volte, l’uso di dispositivi elettronici può essere una strategia utile con effetto calmante sul bambino, ad esempio durante viaggi in aereo o mentre si svolgono esami medici, così da facilitare la gestione della situazione.

Brito e Dias (2019) sottolineano l’importanza della mediazione parentale nell’uso dei dispositivi digitali: la tecnologia può avere una funziona pedagogica, ma solo se usata correttamente, a seconda dell’età del bambino, e con la supervisione dei genitori. I dispositivi elettronici possono essere una risorsa utile nell’apprendimento, esistono infatti applicazioni apposite in base all’età; dunque, l’uso di applicazioni educative può portare benefici.

Chiaramente l’uso di dispositivi elettronici per l’apprendimento deve comunque essere sempre accompagnato da altri tipi di attività, senza diventare l’unica risorsa. I benefici connessi all’uso di dispositivi elettronici si osservano il più delle volte solo in contesti scolastici, dove sono garantite la partecipazione degli adulti e l’uso di specifiche applicazioni adatte all’età e funzionali all’apprendimento (Rocha & Nunes, 2020).

L’uso ripetuto e prolungato può però portare a un minor benessere psico-sociale e a problemi comportamentali (Zhao et al., 2018). 

I rischi, a livello di sviluppo e comportamento del bambino, che possono derivare dall’uso scorretto di questi dispositivi sono comunque superiori rispetto ai benefici che possono risultarne. 

In ogni caso l’importanza maggiore è da dare alla qualità della relazione adulto-bambino e non all’uso dei dispositivi in sé (Rocha & Nunes, 2020).

In una società in cui è inevitabile che i bambini coesistano con vari tipi di media digitali, lo sviluppo di attività alternative e all’aperto è benefico nella crescita dei bambini, andando a bilanciare il tempo passato in attività sedentarie e la tendenza a un eccessivo uso dei dispositivi elettronici (Rocha & Nunes, 2020).

 

Eleonora Pregnolato, Dott.sa magistrale in Psicologia

 

Bibliografia

Bianchi, A., & Mazzucchelli, C. (2019). Bambini nel digitale. PNEI REVIEW, 2, 70-81. DOI:10.3280/PNEI2019-002007

Brito, R., & Dias, P. (2019). Technologies and children up to 8 years old: what changes in one year? Observatorio (OBS*), 13(2), 68–86.

Carter, B., Rees, P., Hale, L., Bhattacharjee, D., & Paradkar, M. S. (2016). Association between portable screen-based media device access or use and sleep outcomes: A systematic review and meta-analysis. JAMA Pediatrics, 170(12), 1202–1208. DOI: 10.1001/jamapediatrics.2016.2341.

Howe, A. S., Heath, A. M., Lawrence, J., Galland, B. C., Gray, A. R., Taylor, B. J., & Taylor, R. W. (2017). Parenting style and family type, but not child temperament, are associated with television viewing time in children at two years of age. PLoS One, 12(12), 1–16. DOI: 10.1371/journal.pone. 0188558.

Rocha, B., & Nunes, C. (2020). Benefits and damages of the use of touchscreen devices for the development and behavior of children under 5 years old—a systematic review. Psicologia: Reflexão e Crítica, 33. DOI: 10.1186/s41155-020-00163-8

World Health Organization (2019). Guidelines on physical activity, sedentary behavior and sleep for children under 5 years of age. World Health Organization.

 

Zhao, J., Zhang, Y., Jiang, F., Ip, P., KaWing Ho, F., Zhang, Y., & Huang, H. (2018). Excessive screentime and psychosocial well-being: The mediating role of body mass index, sleep duration, and parent-child interaction. JAMA Pediatrics, 202, 7–62. DOI: 10.1016/j.jpeds.2018.06.029.

 

Effetti di lockdown e Didattica a distanza (Dad) su bambini e ragazzi

 

 

Da una recente ricerca del Gaslini di Genova condotta su 6800 soggetti in tutta Italia emerge che «nel 65% e nel 71% dei bambini con età rispettivamente minore o maggiore di 6 anni sono insorte problematiche comportamentali e sintomi di regressione. Per quel che riguarda i bambini al di sotto dei sei anni i disturbi più frequenti sono stati l’aumento dell’irritabilità, disturbi del sonno e disturbi d’ansia (inquietudine, ansia da separazione). Nei bambini e adolescenti (età 6-18 anni) i disturbi più frequenti hanno interessato la “componente somatica” (disturbi d’ansia e somatoformi come la sensazione di mancanza d’aria) e i disturbi del sonno (difficoltà di addormentamento, difficoltà di risveglio per iniziare le lezioni per via telematica a casa)».

Le «difficoltà di addormentamento, difficoltà di risveglio» sono in genere associate a una tendenza depressiva, mentre i «disturbi del sonno» sono ormai considerati tipi della prolungata esposizione a schermi elettronici. Infatti il movimento, i colori forti, la luce violenta e le onde elettromagnetiche alterano i cicli circadiani, riattivando l’organismo. Tornando ai ragazzi tra i 6 e i 18 anni, «è stata osservata una significativa alterazione del ritmo del sonno con tendenza al "ritardo di fase” (adolescenti che vanno a letto molto più tardi e non riescono a svegliarsi al mattino), come in una sorta di “jet lag” domestico. In questa popolazione di più grandi - prosegue la ricerca del Gaslini - è stata inoltre riscontrata una aumentata instabilità emotiva con irritabilità e cambiamenti del tono dell’umore».

 

Una rassegna mondiale sulle ricerche scientifiche disponibili ha riscontrato, nei ragazzi tra i 6 e i 18 anni, l’emergenza di una serie di atteggiamenti causati dal lockdown: incertezza, paura e isolamento; disturbi del sonno, incubi, inappetenza, agitazione, inattenzione (non disattenzione: inattenzione) e ansia da separazione.

La ricerca svolta in Scozia ritiene che il lockdown sembra aver provocato sintomi simili a quelli del PTSD (sindrome post-traumatica da stress), in genere causato da un evento traumatico, catastrofico o violento. In genere, il PTSD è la sindrome dei soldati coinvolti in combattimenti pesanti.  

Una ricerca svolta in Francia ha rilevato stress, preoccupazione, ansia e senso di solitudine nella popolazione più giovane.

 

A tutto questo vanno aggiunti i danni, non ancora sperimentalmente rilevati, provocati dalla mancanza di sport e movimento, fondamentali per uno sviluppo psico-fisico equilibrato dei ragazzi e la deprivazione di sole e aria aperta per i bambini che vivono in città. E' risaputa l’importanza del gruppo dei pari nello sviluppo dei bambini e dei ragazzi; non possiamo ancora dire quali saranno le conseguenze della sua deprivazione attraverso ricerche validate, tuttavia abbiamo i dati relativi agli aumenti dei ricoveri nelle neuropsichiatrie infantili negli ultimi 12 mesi ed alla saturazione del sistema sanitario per il cresciuto numero di prese in carico oltre che le testimonianze di genitori preoccupati nell'essere testimoni impotenti del disagio dei figli.

 

La Dad è la modalità didattica privilegiata durante la chiusura delle scuole avviene tramite un media device (computer, tablet o cellulare) e può svolgersi tramite trasmissione dal vivo o registrata. 

E' dimostrato che il tempo di attenzione, rispetto alla modalità «in presenza», crolla drammaticamente nella versione «live» ed ulteriormente in quella registrata. Ci sono studi sulla popolazione di lavoratori in remoto rispetto alla maggior stanchezza e stress da video lavoro, facilmente estensibili ai più piccoli che fisiologicamente sono meno adatti a questo tipo di attività: fermi davanti a un monitor per ore.

A ciò si aggiungono difficoltà tecniche legate alla connessione, alla «tenuta» dei programmi e alla funzionalità delle periferiche (web-cam, microfoni, cuffie…), che rende ulteriormente problematico ottenere un livello accettabile di questa forma didattica.

Altro fattore fortemente significativo è l'età degli studenti dall'altra parte del monitor che va da bambini troppo piccoli per essere adatti a questo tipo di didattica a ragazzi più grandi che avrebbero bisogno di una maggior interazione affinché il contesto educativo possa svolgere la sua funzione. Non ultimo anche l'incombente presenza dei genitori è un fattore da considerare rispetto alle dinamiche che vengono a crearsi. 

L’Italian Journal of Pediatrics ha pubblicato una rassegna sulle ricerche che riguardano l’effetto dell'uso di apparati tecnologici nei bambini. Ne risulta una importante riduzione dei punteggi in matematica e nell’attenzione, con una importante perdita di efficienza. Abbiamo inoltre: obesità, sedentarietà, comportamenti alimentari dannosi, mal di testa, problemi al collo e alle spalle; disturbi del sonno; danni agli occhi (fatica, irritazione e secchezza degli occhi); infine, una successiva ridotta interazione tra i bambini e i genitori.

 

L'educazione scolastica non è meramente un travaso di conoscenze ma un apprendimento di competenze che va ben oltre alla nozioni, ma un processo volto ad accompagnare e potenziare lo sviluppo e la crescita sani oltre a fornire ai bambini e ai ragazzi gli strumenti per muoversi nel mondo, cosa difficile se non impossibile da effettuare in isolamento, attraverso un monitor, una linea instabile e, a volte, un contesto non adeguato.

A tal proposito riporto le chiare considerazioni del pedagogista Daniele Novara rispetto ai seri rischi della Dad: 

 

1) Danni in ordine allo sviluppo cognitivo

La mancanza di frequenza scolastica in presenza altera significativamente le possibilità di assorbire e metabolizzare le opportunità dell’apprendimento scolastico trasformandole in esperienza concreta. La mancanza della componente sociale deprime fortemente le basi neurologiche dell’imparare stesso, processo che è sostanzialmente improntato a una necessità di imitazione e rispecchiamento reciproco, tanto dell’insegnante verso gli alunni quanto degli alunni tra di loro. Ne risulta un sostanziale impoverimento delle risorse cognitive che vengono usate in maniera molto ridotta.

 

2) Danni da isolamento sociale

L’adolescenza, per sua natura, è l’età dell’uscita dal nucleo familiare e dal nido materno per affrontare nuove sfide orientate alla costruzione di una compagine sociale non più intra-familiare, ma fortemente connotata dall’interazione con i propri coetanei, sia per un bisogno di relazione e di contatto, ma anche per le necessità socio-affettive e affettivo-sessuali che esordiscono proprio in questo importantissimo periodo della vita. La scuola, da ormai molti decenni, rappresenta non solo il luogo dell’apprendimento formale, ma anche dell’incontro con i propri simili, in modo da costruire quei gruppi di rafforzamento evolutivo che consentono agli adolescenti di trovare un senso alle difficoltà che il passaggio dall’infanzia all’età adulta necessariamente comporta.

 

3) Danni da eccesso di uso di dispositivi virtuali

Da sempre, la scuola ha utilizzato tecnologie di varia natura per garantire l’attività didattica ai propri studenti. Le tecnologie sono indispensabili per la costruzione di unità didattiche significative e coinvolgenti. Viceversa, nella situazione che stanno vivendo gli adolescenti italiani, ossia di permanente didattica online, l’equilibrio è completamente stravolto: le tecnologie non supportano il processo didattico svolto in presenza, ma lo sostituiscono costringendo ragazzi e ragazze a una frequentazione di dispositivi tecnologici e digitali appartenenti a un mondo che è virtuale, che non è né sensoriale né fisico né materico, con gravi danni sul piano della motivazione. Viene meno, infatti, la relazione in carne e ossa con insegnanti e compagni. Tutta la storia della pedagogia è invece orientata alla necessità di condivisione sociale e sensoriale che rappresenta la base stessa del potenziamento scolastico.

 

4) Danni da regressione psico-evolutiva

È questo il punto più critico. Compaiono nelle ragazze e nei ragazzi segnali di malessere depressivo che conseguono ai punti sopra segnalati. La costrizione casalinga riavvolge il nastro della crescita all’indietro, piuttosto che in avanti, creando un inceppamento nelle fasi psico-evolutive che può generare tendenze depressive orientate in particolar modo a indolenza e refrattarietà rispetto ai compiti e alla responsabilità della vita in questo momento specifico della crescita. Si creano quindi le condizioni per comportamenti autolesivi di varia natura, ma anche per comportamenti aggressivi legati a vissuti di rabbia, di frustrazione ingestibile e di assenza di prospettiva in quanto questa situazione sembra non avere un orizzonte di conclusione.

 

Come ultima considerazione aggiungo che non abbiamo informazioni precise e definitive in merito alla contagiosità dei bambini, anzi ci sono evidenze di segno opposto. Sappiamo che la pandemia non ha colpito i bambini, non si sono verificati decessi sotto i vent’anni. Come anche il contagio da bambini a nonni non è documentato. Anzi, il 70% dei fondi babysitter è stato utilizzato proprio per pagare i nonni nel periodo del lockdown senza evidenti conseguenze.

A tal proposito cito una disamina dell’articolo di The Lancet che spiega come i bambini NON siano superdiffusori e come gli screening andrebbero usati meno a scuola e più nelle famiglie e i contatti adulti.

Il recente studio pubblicato sulla famosa rivista The Lancet smonta la nota teoria dei bambini super-spreader. I risultati di questo studio, scrivono gli autori, indicano che i bambini non sono super-diffusori di SARS-CoV-2 e che gli asili nido non sono i principali focolai di contagio virale.

Si tratta di uno studio di sieroprevalenza condotto in Francia durante il lockdown della prima ondata. Il gruppo di bambini dello studio è stato considerato ad alto rischio di contrarre COVID-19 da membri della famiglia (principalmente i loro genitori) a causa delle occupazioni dei loro genitori (operatori sanitari o altri lavoratori essenziali potenzialmente esposti a SARS-CoV-2 ).

Raggruppare questi bambini insieme in un asilo nido durante la pandemia COVID-19 era necessario, ma ha sollevato timori di una trasmissione accentuata visto che durante il lockdown l'incidenza dei contagi era elevata. Il personale dell'asilo nido doveva disinfettare le superfici interne, indossare una maschera tutto il giorno e rispettare le misure di allontanamento sociale, in particolare durante la pausa pranzo. I genitori sono stati istruiti su come verificare i sintomi dei bambini.

Questo studio ha mostrato che le misure sono stati efficaci e che l'esposizione a bambini con infezione da SARS-CoV-2 non ha comportato un aumento del rischio di infezione tra il personale dell'asilo nido, rispetto agli adulti non esposti sul lavoro. La maggior parte degli adulti era asintomatica o presentava sintomi lievi o lievi durante il blocco. Un'analisi esplorativa che confrontava adulti sieronegativi e sieropositivi ha suggerito che gli adulti sieropositivi avevano contratto per lo più l'infezione SARS-CoV-2 da un altro membro della famiglia e non dai bambini.

Non è stata trovata alcuna evidenza di trasmissione di SARS-CoV-2 negli asili nido. Nessuno dei bambini che hanno frequentato un asilo nido per tutto o parte del periodo di isolamento è risultato positivo per SARS-CoV-2 RNA.

 

E chiudo con una domanda: a fronte di tanti danni effettivi già ben visibili e di evidenze validate da ricerche o semplicemente dai fatti rispetto alla non super-contagiosità dei bambini perché la scuola così importante per il benessere presente e futuro dei più piccoli chiude?

 


 D.ssa Stefania Macchieraldo | Psicologa-Psicoterapeuta, Sociologa | Iscrizione Albo n° 7490

 

Di seguito i link alle ricerche originali relative a:



La maternità è a lungo attesa e desiderata da molte donne. Ma il mito della maternità come il momento più bello della vita, di amore assoluto tra madre e figlio, non è realistico, anzi, può produrre molti danni impedendo alle donne di in difficoltà di sentirsi legittimate a chiedere aiuto.

Recenti statistiche mostrano che 2 donne su 10 soffrono di un problema di salute emotiva durante la gravidanza e nel primo anno dopo il parto.

Di queste donne ben il 75% non sarebbe adeguatamente seguito in questo momento delicato.

La gravidanza, infatti, implica dei cambiamenti fisici e comportamentali che si manifestano nel corpo e nel cervello delle mamme e, se non correttamente riconosciuti e accolti, possono causare difficoltà a molte donne. A differenza di un tempo, inoltre, le donne si trovan tendenzialmente più sole ad affrontare questo momento.

Cosa è possibile fare? Tre consigli:

  1. Parlare di quello che si sta vivendo, dei sentimenti che si provano, dei pensieri che si hanno e, se necessario, chiedere aiuto: alle persone vicine per le incombenze pratiche, ad un professionista della salute se il peso emotivo è elevato.

    Parlarne senza vergogna, è normale sentirsi in difficoltà e, a volte, avere anche pensieri conflittuali e provare emozioni inaspettate come la rabbia e la tristezza

  2. Sbalzi d’umore ed ansia in parte possono essere normali, ma non si deve sottovalutare come ci si sente, soprattutto se i disagi durano a lungo e sono piuttosto intensi. In ogni caso, prima si affronta la questione meglio è, per evitare che la situazione diventi difficile e quindi più faticosa da recuperare.

  3. Non sentirsi in colpa se non si sta come si era immaginato (o come ci avevano fatto credere accadesse), non ambire ad essere per forza felice e che tutto sia perfetto. Il “mito della maternità” ovvero che una madre durante la gravidanza e a maggior ragione quando ha il bimbo in braccio, debba essere raggiante, felice e completamente appagata è falso e fuorviante, può accadere, ma spesso è molto più complesso e altre volte addirittura molto lontano dalla realtà. Ciò è semplicemente naturale e piccolo a grande che sia il disagio provato da una mamma richiede solo una cosa: ascolto e aiuto.

    d.ssa Stefania Macchieraldo - Psicologa-Psicoterapeuta - 340.74.60.184

Il lutto porta con sé uno stravolgimento nella vita dei singoli e delle loro famiglie. Un discorso specifico merita la perdita di un genitore o di una persona cara in adolescenza. Vorrei soffermarmi qui a pensare cosa significa perdere un punto cardine di un sistema, quando parte di quel sistema è ancora in costruzione. Il lutto si subisce: incombe, non si controlla e prorompe con violenza straordinaria. Questa è insieme la definizione di trauma, in cui il ragazzo vive uno shock a cui non può essere preparato.

“COME TENGO INSIEME LA MIA SPINTA A SEPARARMI E L’ENORME VUOTO CHE LA MORTE HA CREATO?”

Questo possiamo immaginare essere uno dei principali conflitti che agitano l’animo del ragazzo. L’adolescente è impreparato alla perdita prematura, così come alle emozioni e alle reazioni che questa suscita in lui; confusione, tristezza, rabbia, paura, senso di colpa e angoscia. Il senso di appartenenza: se l’adolescente costruisce la propria identità a partire da chi è stato e da ciò che ha sperimentato con le figure di attaccamento, nella morte di un genitore è messo di fronte al dover lasciare andare una parte di sé che si stava allenando a separarsi idealmente dal primario nucleo di appartenenza. Messo innanzi al bisogno di ricominciare egli può trovarsi a sperimentare un forte senso di colpa nel farlo, sarebbe come essere sleale nei confronti di chi l’ha lasciato.

“STO MALE E NON RIESCO A SPIEGARTELO”

Quello che è visibile della sofferenza di un adolescente è il suo comportamento; sul fronte dell’aggressività eterodiretta o ego-riferita, dolore che parla nel corpo attraverso sintomi psicosomatici, messo a tacere con alcol e sostanze o con un’inedita relazione disturbata con il cibo; un malessere che incide sulla variabilità dell’umore, della concentrazione (con esiti sul rendimento scolastico) o disturbi del sonno. Come adulto e come professionista della cura non mi aspetto che un adolescente in lutto voglia parlare di emozioni, perché questo conferma il forte vissuto di vulnerabilità che sta vivendo nell’anticamera del suo cuore. Dirsi fragile sarebbe contraddittorio rispetto alla costruzione di un’identità basata sul sentire di potercela fare e di essere al sicuro.

“POTRÒ TORNARE A DIVERTIRMI E SENTIRMI BENE NELLA MIA VITA?”

Nella grande sofferenza protratta nel tempo l’idea di futuro e di investimento su di sé, sulle proprie risorse si obnubila. L’adolescente nel tempo, se non adeguatamente supportato, rischia di cadere in un’aspirale negativa di pensiero da cui temere fortemente di non riuscire ad uscire. L’idea terrifica di una sofferenza perpetua a lungo termine può fare da sedimento a vissuti depressivi e rendere passivo il soggetto.

“VOGLIO VIVERE MA NON POSSO DIMENTICARE”

La morte mette impietosamente di fronte ad un’enorme sfida evolutiva: richiede, impone un riadattamento alla realtà scardinata nei suoi punti essenziali. Sancisce un prima e un dopo: la vita di prima è irriconoscibile, la routine si perde ed il mondo può non apparire più come quel luogo sicuro in cui affermarsi. Le strategie di adattamento che l’adolescente può scegliere variano a seconda della sua personalità e dei significati e degli aiuti che riceve dalla rete sociale di riferimento.

“CHI SONO IO? ORA CHE NON SIAMO INVINCIBILI, SIAMO FRAGILI E VULNERABILI”

Se fino al giorno prima aveva considerato immortali se stesso e le persone vicine, oggi questa credenza si sgretola di fronte all’evidenza. L’adolescenza vorrebbe conquistare il mondo. Per questo motivo, una delle risposte che ci aspettiamo da un adolescente in lutto è la totale chiusura, chiusura in sé, dalla famiglia, dalla scuola, dagli amici; oppure una negazione completa della sofferenza, una finta apertura al mondo, magari coadiuvata da alcool e droghe come anestetici al dolore. In questo senso si può registrare un chiudersi in casa o un non volerci più rientrare.

“PERCHÉ PROPRIO A ME?”

La morte non ha giustificazioni, succede e basta. Quello che la mente e il corpo registrano davanti a lei è un forte senso di impotenza e di ingiustizia. Nell’ingiustizia ci si ritrova e si subisce; le primordiali reazioni umane a questa fanno appello alla rabbia. Essa è normale e adattativa in un primo momento, una corsia preferenziale per ritrovare un senso di controllo sulla situazione, veicolo di distanziamento dal dolore.

“POSSO ANCORA SENTIRMI UGUALE AI MIEI COETANEI?”

Ciò che registra un adolescente che subisce un lutto è un sentimento di estraneità dal resto del mondo, dai suoi coetanei. Questo è sufficiente a comprendere le difficoltà a rimettersi in gioco in campo relazionale. L’identità adolescente si forma anche nella comparazione e nel senso di uguaglianza coi pari. La morte di un genitore lo espone presto ad una vicenda extra-ordinaria, detrattiva, fonte di vergogna. Sebbene la rete sociale, la scuola siano fondamentali sistemi di supporto, quello che spesso avviene è un disinvestimento dalla relazione, sentita come troppo sfidante rispetto ad un senso di valore personale. Ciò che il ragazzo fa nel sottrarsi alle relazioni è semplicemente difendersi da un senso di inferiorità e inadeguatezza rispetto ai pari.

“HO ANCORA BISOGNO DEL TUO AIUTO, ADESSO”

L’adolescente sperimenta un forte bisogno di sentire nuovamente il mondo attorno sicuro e normale e può manifestare una reale difficoltà di relazione con gli adulti di riferimento: da un lato dipendenza-attaccamento dai famigliari dall’altro aggressività-insofferenza nei confronti delle regole familiari; la sfida è complessa, capire come tenere insieme, da un canto l’offerta di sostegno dei familiari, dall’altro muoversi verso l’esplorazione autonoma del mondo esterno. Una presenza solida, costante e affettiva dell’ adulto – genitori, parenti, amici, insegnanti – è cruciale nella fase del lutto, per accompagnarlo a stare nella tristezza e nel dolore e lenire il senso solitudine e isolamento. Per garantire una presenza solida, l’adulto deve essere un riferimento ben ancorato a terra. La famiglia è il primo sistema che può accogliere e curare le ferite oppure può ammalarsi col singolo: da ambiente di resilienza a nucleo di blocco comune, in cui il sintomo di uno è cassa di risonanza per il malessere di tutti. La mancata elaborazione di un lutto può intaccare la competenza ed il funzionamento di tutto il sistema compromettendone capacità relazionali ed evolutive.

IL TEMPO TALVOLTA NON BASTA

Il periodo di lutto considerato normo-tipico è di circa un anno; quando la sofferenza e i vissuti soverchianti ostacolano il vivere quotidiano dopo un anno dell’evento è bene rivolgersi a professionisti della cura. Io, in questo ruolo, accolgo la sofferenza del ragazzo ascoltando anche quella di chi gli sta intorno, in quanto testimoni e risorsa per il cambiamento.

d.ssa Marta Lanfranco

 

Bibliografia

Di Caro S., (2017), “La psicoterapia del distacco, dinamiche intrapsichiche, funzionamenti familiari e trattamento del lutto in terapia relazionale”

Oppenheim D., (2000),“Dialoghi con i bambini sulla morte. Le fantasie, i vissuti, le parole sul lutto e sui distacchi”

Contatti

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